Di norma, quando un fatto drammatico sconvolge la vita di chi ci sta intorno o la nostra, non desideriamo altro che archiviare quel dolore e andare avanti.

Soffrire, ovviamente, non piace a nessuno, e tantomeno vedere soffrire le persone che amiamo. Se penso, infatti, alle mie figlie o alla mia compagna mi si stringe il cuore anche solo a immaginarle piangere.

Il rifiuto per il dolore, sia per quanto riguarda l’esserne protagonisti e provarlo sulla propria pelle, sia nel vederlo negli altri, è però molto pericoloso.

Un meccanismo molto utilizzato per far ricondurre il dolore “interiore” a una sfera che riusciamo a comprendere meglio è quello di paragonarlo a ferite o malattie. È una tecnica molto semplice ed efficace per dare un nome e associare un’immagine a qualcosa che non si tocca.

Ecco, vorrei riutilizzarla per provare insieme a te a far chiarezza su un concetto. Immagina di avere un grosso e profondo taglio sul braccio, lasciato da una lama non proprio pulitissima, quello che dovresti fare è pulire la ferita nel profondo, applicare dei punti e, dopo averlo fatto, fasciare adeguatamente. 

Quello che viene fatto (nella maggior parte dei casi, almeno) è cercare di tamponare con una fascia la ferita senza curarsi del fatto che sotto le bende i batteri stanno lentamente infettando il resto. 

È un’immagine un po’ ripugnante, me ne rendo conto, ma mi serviva giusto per farti comprendere, riportandolo a una sfera visibile, quello che accade dentro chi vive un lutto.

Uno dei tentativi più maldestri di coprire le ferite è applicarci sopra frasi di circostanza, che sembrano essere la soluzione alla quale ricorriamo più facilmente.

Magari ti sarà capitato di perdere una persona a te cara o magari, al contrario, di stare accanto a qualcuno che sta vivendo un momento di lutto, ti sarai trovato quindi vittima o artefice di frasi di circostanza.

Sono quelle tipiche espressioni che usiamo perché il silenzio fa troppa paura e abbiamo bisogno di riempirlo in qualche modo

Nessuno di noi vuole essere superficiale, scontato o, addirittura, cattivo, quando fa affermazioni del genere.

Di solito ci si trova in una situazione in cui il silenzio è rotto solo e soltanto dalle lacrime, in cui l’altro fissa di norma il pavimento cercando di ricacciare il famoso groppo giù per la gola e il viso si fa sempre più umido.

Ci si trova in un posto in cui non siamo abituati a stare, vista la società positiva e ottimista nella quale siamo costretti a vivere, in cui le persone sono abituate solo e soltanto a postare foto sorridenti e frasi che ostentano i migliori risultati ottenuti.

E allora la dimensione oscura di un dolore intimo ci sembra un posto strano, in cui non abbiamo nessuna intenzione di trovarci.

Non dire nulla sembra insensibile, noncurante, e allora ecco che cerchi, come tutti, di far sentire la tua presenza dicendo qualcosa. Il punto è che uscite del genere possono essere dannose oltre che inutili.

Il danno delle frasi di circostanza

Qualche tempo fa mi è capitato di leggere un post su Facebook scorrendo la mia bacheca e di rimanerne come folgorato.

Ci ho ritrovato molti dei concetti che io cerco di portare giorno dopo giorno nella mia professione e molte delle difficoltà che le persone che si rivolgono a me affrontano giorno dopo giorno.

L’ha scritto Erika Zerbini, un’autrice che stimo molto e che affronta un tema difficile come il lutto perinatale, ossia la perdita di un bambino non ancora nato o al mondo da pochi giorni (questo è il suo sito www.luttoperinatale.life).

Mi ha gentilmente dato il permesso di usare le sue parole qui sul mio blog:

«Per te è stato diverso: tu avevi già altri figli».

Capita molto spesso di sentirmelo dire.
Come capita di sentirmi chiedere a che epoca della gravidanza siano avvenute le morti delle mie figlie, quale fosse il motivo, se poi abbia avuto altri figli.
Anche chi ha vissuto la morte del proprio bambino in epoca perinatale, ha bisogno di orientarsi nell’esperienza dell’altro e trovare i suoi sostegni per starci dentro. Anche chi sa, domanda e talvolta si orienta come un elefante in una cristalleria.
Così avere già altri figli riduce l’entità della perdita: in fin dei conti un bambino in famiglia già c’è, come se ogni figlio non fosse una storia a sé.
È meno grave se la morte del bambino è avvenuta nelle prime settimane: in fin dei conti si sa che possa accadere, in fin dei conti non era ancora un bambino vero.
Se non c’è una causa, beh, si può riprovare senza tanti pensieri, come se non avere una ragione equivalesse a non correre più pericoli.
Se poi è nato un figlio vivo, beh, non è giunto l’arcobaleno? Tutto a posto dunque, si ha ottenuto la rivincita: uno a uno, palla al centro.
Quanto è difficile semplicemente «stare» nella storia dell’altro, senza domande, senza giudizi, senza rifletterci la propria, senza volerla rendere meglio di quel che è, senza pretendere di risolverla, senza dare soluzioni, senza consolare.
Solo «stare».
È difficilissimo. È un’arte. L’arte dell’ascolto.
Un’arte che ho l’ambizione di imparare.
Non stupirti delle mie poche domande, non pensare che il mio silenzio sia scarsa partecipazione, non credere che le pause prive di frasi di circostanza avvengano perché non sappia cosa dire.


Ti sto ascoltando.


Ci sto provando al massimo delle mie potenzialità. Ci sto mettendo le orecchie, gli occhi, la mente e il cuore.

Qualche volta mi può partire una mano a stringere il tuo braccio: avviene prima di considerare se possa farti piacere il tocco, so che non tutti gradiscono; mi viene istintivo farlo quando le tue parole mi toccano più giù di quanto possa reggere e ho bisogno, in qualche modo, di farti sentire che ci sono.

Se ti invado, scusami.
Sto imparando a «stare». Ce la sto mettendo tutta”.

In queste poche righe Erika, con la maestria che la contraddistingue, ha espresso un concetto davvero fondamentale per chiunque stia vivendo un lutto, ma anche per chi cerca di stargli accanto.

Le cosiddette frasi di circostanza non sono solo innocue e inutili, ma anche pericolose e dannose per chi le ascolta.

Il pericolo più grande delle frasi di circostanza

Quello che fanno di solito, come primissimo effetto, è sminuire il dolore, sono infatti quelle famose bende sulla ferita non disinfettata di cui parlavamo prima.

“Tu avevi già altri figli” per esempio è una frase in grado di farti sentire sbagliata, perché stai soffrendo quando non he hai diritto, quando ci sono persone che hanno perso il loro unico figlio e hanno più diritto di te di soffrire.

Questo è solo un esempio, ma si applica, purtroppo, a moltissimi casi.

Pensa ad esempio a quando hai perso un genitore, magari anziano.

Qual è la prima frase che ti hanno detto? Probabilmente: era avanti con gli anni…”.

O qualcuno che perde un familiare dopo una lunga malattia e che matematicamente riceverà un “è meglio così, almeno ha smesso di soffrire”.

Sono tutte espressioni che hanno l’obiettivo intrinseco di farti sentire meno male, è davvero per quel motivo che vengono pronunciate, o che magari anche tu le hai dette in passato, ma l’effetto che ottengono è sminuire il tuo dolore.

Io so che nessuno di noi è crudele e che la maggior parte delle volte le persone non feriscono con intenzione, ma il risultato finale purtroppo è quello.

L’ho visto fare anche da persone che fanno la mia stessa professione e sarò di certo incappato nello stesso errore anche io quando ero alle prime armi.

Il punto è che è difficile vivere fianco a fianco con la sofferenza

La volontà è sempre quella di cacciarla sotto un tombino il prima possibile.

È come se tu camminassi con un mostro al tuo fianco e te lo portassi sempre dietro, quando ti fermi a guardarlo ti spaventi, hai paura e non puoi fare a meno da rimanerne terrorizzato, quindi cosa decidi di fare?

Cammini il più velocemente possibile senza mai guardarlo in faccia, lanciandoti in mille progetti, impegni e appuntamenti in grado di distrarci.

E quando qualcuno ci si avvicina e lo vede, si spaventa e cerca di nasconderlo e di ricacciarlo indietro. 

È normale, dunque, che tu ti senta meno in diritto di stare male, privato della sacrosanta possibilità di piangere, di essere triste, di concederti dei giorni in cui ti fermi e non porti avanti le tue normali attività.

È altrettanto normale che le persone passino dunque un momento di forte negazione, che viene accentuato appunto da queste fatidiche frasi di circostanza.

Cosa fare dunque?

L’importanza del silenzio

Non è necessario parlare sempre, certo, è bellissimo comunicare, ma non sempre ci sono parole o frasi adatte alla singola situazione.

Citando Erika, che lo ha espresso in maniera meravigliosa nelle righe qui sopra, l’importante è stare, esserci, è la nostra stessa presenza a rassicurare chi ci è vicino.

Quella che dovresti dunque scegliere come via è semplicemente l’accettazione del dolore e il suo riconoscimento, senza però nessun tentativo di alleviarlo.

Capisco come ti senti, io ci sono sempre” sono tutte le parole che ti servono e che servono a chi intorno a te sta soffrendo.

Se invece ti trovi dalla parte di chi sta soffrendo, so che ti chiedo molto, ma non ascoltare le loro parole, non prestargli ascolto e cerca di vedere solo e soltanto il maldestro tentativo di starti accanto.

Scorgi ciò che c’è al di là di tutti le affermazioni spiacevoli che ti vengono fatte e, soprattutto, non pensare mai e poi mai di non avere il diritto di soffrire.

Sia che tu abbia perso un figlio mai nato, un amico, un padre, un compagno; sia che vi conosceste da 10, sia che fossero solo un paio d’anni; sia che sia stata una lunga esperienza di sofferenza, sia che tutto sia avvenuto in un lampo.

Non ha importanza per il tuo diritto a soffrire, quello è tuo in ogni caso e nulla dovrebbe togliertelo.

Da dove partire?

Abbiamo parlato di accettare il dolore, non accettarlo, trovare le parole giuste, rimanere zitti. Sono tutti tasselli di un puzzle che ha l’obiettivo di farti attraversare il periodo di lutto nel miglior modo possibile, che non significa andare avanti facendo finta di niente, ma vuol dire invece vivere il dolore e accettare con i tuoi personalissimi tempi e modi la scomparsa di chi amavi.

Non posso sinceramente dirti come farlo, non posso darti delle “direttive”, è impossibile, siamo tutti diversi e il lutto va attraversato accettando e valorizzando la tua maniera unica di soffrire.

Se però ti è capitato più e più volte di trovarti a fare i conti con frasi davanti alle quali non sapevi come reagire, se hai trattenuto le lacrime davanti a affermazioni inappropriate, indelicate e che non hanno fatto altro che ferirti, se ti sei ritrovato a provare una forte rabbia davanti a chi sembrava non comprendere nulla di ciò che ti affannava il cuore…

Allora penso di aver scritto un libro che può in qualche modo esserti d’aiuto a comprendere un po’ meglio i sentimenti confusi che provi ed accettare ciò che stai vivendo.

Cliccando nel link a destra trovi la sua presentazione: restalamore.com

Penso sia utile anche per chi sta cercando di aiutare qualcuno a superare un lutto. Ho visto molti mariti confusi, smarriti, rimanere immobili davanti all’amore della loro vita piegato dalle lacrime.

Non tutti siamo naturalmente empatici, non tutti ci rendiamo conto di ciò che è meglio fare o non fare, dire o non dire e non è una colpa sentirsi confusi di fronte al dolore di chi amiamo, non è una grave responsabilità.

Sono però sicuro che sarebbe utile per te agire nel modo migliore possibile per chi ti sta accanto, smettere magari di sentirti sempre a disagio e un po’ in colpa, ed essere il supporto di cui hanno bisogno.

Per questo ho scritto “Quel che resta è l’amore”, un libro in cui ho cercato di mettere al tuo servizio oltre 20 anni di esperienza al fianco di chi soffre ogni giorno.

Puoi leggerne la presentazione nel link: restalamore.com

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