“In memoria di Malcolm H. Kerr, 1931-1984. Ha vissuto la vita con pienezza”.

Queste sono le parole incise sul monumento onorario dedicato a Malcolm H. Kerr, padre di Steve Kerr, celebre giocatore, allenatore e commentatore del basket statunitense.

Una vera e propria leggenda nell’NBA. Campione del mondo per tre anni di fila con i Bulls di Michael Jordan e allenatore dei fortissimi Golden State Warriors di Steve Curry e Klay Thompson.

Ma oggi non mi interessa però parlarti del lato sportivo, o almeno, non del tutto, quello che forse non tutti sanno è quanto Steve sia stato stravolto da un lutto a un certo punto della sua vita.

“C’era qualche problema sull’effettivo decollo dei voli, a causa di tutto ciò che stava accadendo a Beirut”, ha dichiarato Kerr in un’intervista: “Eravamo nel terminal e all’improvviso ci fu un’esplosione. Non era nel terminal, ma sulle passerelle. L’intero posto si è bloccato. Tutti si sono congelati. La gente ha iniziato a radunarsi, dicendo: “Dobbiamo andarcene da qui.” Mia madre mi ha afferrato, e ricordo di essere corso fuori dal terminal e attraverso il parcheggio. È stato davvero spaventoso. Ricordo di aver pensato “Sta succedendo davvero”.

Questo è l’inizio del racconto che Steve Kerr ha rilasciato al New York Times, parlando del periodo tumultuoso che sarebbe poi sfociato con la perdita di suo padre.

I Kerr in quel momento meditavano sulle opzioni per far uscire Steve da Beirut e hanno saputo che un aereo privato di diplomatici stava andando alla base marina degli Stati Uniti e che poteva esserci un posto disponibile sul volo di rientro. Steve ha trascorso ore ad aspettare, parlando con i Marines. Alla fine, non c’erano posti, quindi presero accordi affinché un guidatore universitario portasse Steve sulle montagne, attraverso la Siria e la Giordania.

Una mattina presto, nell’ottobre 1983, un’autobomba distrusse la caserma marina a quattro piani. Tra i morti c’erano 220 marines e altri 21 membri del servizio.

Ricordo di aver guardato tutte le foto in seguito“, ha detto Kerr, iniziando a piangere. “Guardavo tutte queste persone molto simpatiche, che ho incontrato in quel viaggio che stavano solo cercando di fare il loro lavoro e mantenere la pace. E un’autobomba li aveva portati via

Era inevitabile che riconoscesse dei volti, ma questo non ha potuto fare a meno di commuoverlo per il contatto con quelle persone ormai venute a mancare.

In un racconto del genere non possono non emergere le lacrime anche se sono passati oltre 30 anni. Soprattutto al pensiero che quei giorni non lo hanno separato solo da persone gentili appena conosciuti, ma anche da suo padre.

Kerr viveva da tempo negli Stati Uniti, lontano dalla famiglia, per perseguire il sogno di diventare un giocatore professionista di basket. L’amore dei suoi genitori e in particolar modo di suo padre l’aveva sempre sostenuto nei suoi progetti.

L’assassinio, il 18 gennaio 1984, fu una notizia internazionale, finita anche sulla prima pagina del New York Times. Malcolm Kerr, 52 anni, era sceso dall’ascensore verso il suo ufficio nella College Hall e gli avevano sparato alla nuca. I due assalitori sconosciuti sono fuggiti. Più tardi quello stesso giorno un gruppo islamico avrebbe rivendicato l’omicidio.

L’articolo sull’assassinio affermava strenuamente l’importanza di Kerr e la sua bontà d’animo, mettendo completamente fuori discussione il fatto che potesse essere un fatto personale, un gesto rivolto contro di lui come persona.

Il giornale enfatizzava quanto Malcolm Kerr fosse una figura modesta ed estremamente popolare tra i suoi 4.800 studenti e docenti a detta di tutti i suoi colleghi. E quanto, secondo tutti, fosse stato ucciso, non per essere quello che era, ma perché in quel momento in cui i marines e l’ambasciata americana a Beirut erano soffocati nella sicurezza, era l’americano di spicco più vulnerabile in Libano e un bersaglio scelto per i militanti che cercavano di intimidire gli americani a partire.

Nulla di tutto questo conta più di tanto per un figlio che ha perso suo padre.


Andrew Kerr, che all’epoca aveva 15 anni, venne a sapere della morte di suo padre alla radio in un negozio vicino al campus in cui si trovava.

Ann Kerr lo apprese mentre aspettava un amico nel campus, fuori sotto la pioggia. Corse alla College Hall, al secondo piano, dove trovò suo marito disteso sul pavimento, a faccia in giù, con la sua valigetta e l’ombrello di fronte a lui.

Steve Kerr è stato svegliato nel cuore della notte dalla telefonata di un amico di famiglia.

In un’intervista inserita di recente nel documentario “The Last Dance”, Kerr parla di suo padre e di come abbia sempre creduto in lui fin da bambino e lo abbia spinto verso la sua più grande passione.

La competitività di Steve nasce proprio da lì, da quel campetto in cui giocava con suo padre e suo fratello.

Non sembrava però un talento destinato ad esplodere, pochissimi notarono le sue doti come giocatore, motivo per cui finì il liceo senza alcun tipo di borsa di studio per lo sport.

Dalla morte del padre però Steve si lanciò nel basket, buttandosi a capofitto in quella che sembrava essere l’unica attività utile a distrarlo dalla tragedia.

Il giorno dopo infatti era già in palestra, concentrato e determinato a non far altro che giocare, giocare e ancora giocare.

Ognuno ha un modo diverso di reagire al lutto, c’è chi difficilmente riesce ad alzarsi dal letto, chi eccede nei vizi, trovando consolazione in alcool, droghe o eccessi di sorte, c’è chi poi, come Steve si concentra sulle sue passioni.

Secondo le famose fasi del lutto ci dovrebbe essere la negazione, la rabbia, la negoziazione, la depressione e l’accettazione. Perché Steve Kerr sembra pronto a tornare a giocare il giorno dopo? Perché non è così che funziona, non si tratta di un percorso ad ostacoli nel quale, saltata il primo e poi il secondo e infine il terzo, arriviamo dritti alla meta senza problema alcuno.

Stiamo parlando invece di un complesso percorso interiore, tutto curve e sali e scendi, durante il quale c’è un’unica regola fondamentale:

Ascoltare ed accettare quello che senti

Non aggravare un momento già penoso con sensi di colpa per i tuoi sentimenti, tutto quello che senti è lecito e accettarlo è il primissimo passo per vivere in maniera un po’ più dolce il traumatico evento del lutto.

“Ogni volta che giocavo, pensavo sempre a lui. Tutte le volte che partiva l’inno nazionale non potevo fare a meno di pensare a quanto gli sarebbe piaciuto vedermi lì, anche se forse ci avrebbe creduto a stento”.

Il lutto nel nostro paese è un tabù insormontabile, non se ne può parlare, non si può viverlo apertamente se non, a volte, nel buio della nostra stanza.

Quello che sto per dire potrebbe essere frainteso, me ne rendo conto, come so che potrebbero esserlo la maggior parte delle cose che scrivo. Questo per il semplice motivo di toccare un argomento che non si vuole nemmeno considerare. Il massimo delle frasi che sentiamo dire di solito è “andrà tutto bene”, “devi essere forte”, “la vita va avanti”, mi sono già soffermato sul pericoloso di frasi del genere, su quanto possano ferire, più o meno consapevolmente, chi ha subito un lutto.

Oggi voglio fare un passo avanti e aprire un’altra piccola breccia in questo muro di silenzio che ci siamo costruiti intorno, dicendo che Steve Kerr, l’uomo straordinario del quale ti ho parlato in questo articolo, forse è diventato un campione proprio grazie alla perdita del padre.

Sto dicendo che è stato meglio suo padre sia venuto a mancare e un ragazzo di 19 anni, insieme a tutta la famiglia, ne debba aver subito la perdita? No, ovviamente no.

Sto dicendo che Steve dovrebbe essere felice perché altrimenti non sarebbe mai diventato un compagno di squadra di Michael Jordan? Ovviamente no.

Sto solo dicendo che a volte da un lutto e da una perdita possono scaturire conseguenze positive inaspettate per noi (quello che Anne Ancelin Schutzenberger ed Evelyne Bissone Jeufroy definiscono “dono nascosto” nel loro libro “Uscire dal lutto”).

Ho già parlato della sesta fase del lutto, la memoria, il ricordo, il rapporto con il passato. Anche in questo caso, come nella maggior parte delle affermazione che faccio, bisogna specificare che non esiste un univoco modo per vivere questa relazione con chi non c’è più.

Sarebbe davvero comodo se un manuale di istruzioni potesse dirci cosa fare esattamente, come con una lavatrice o qualsiasi altro elettrodomestico, tuttavia, purtroppo, le cose stanno molto diversamente.

Una però delle possibili vie per rapportarci con chi non c’è più è quella di farlo vivere nel nostro quotidiano, di rendere onore alla sua vita non sprecando la nostra e dedicandola a qualcosa che amiamo.

Dopo questa frase ci tengo a precisare alcune cose.

Prima di tutto so che se sei in un momento difficile, se stai perdendo qualcuno a te caro, pensare a ciò che di bello può scaturirne ti sembra un abominio e non di certo qualcosa di auspicabile.

Me ne rendo conto, la mia esperienza di oltre 20 anni nei servizi funebri mi ha fatto toccare da vicino la perdita e comprendere quanto possa essere profonda una ferita del genere.

Per questo voglio discostarmi da tutte quelle filosofie o quei modi di dire facili, ma vuoti, che ti spingono a semplificare questo difficile concetto e trasformarlo in “trova il meglio in quello che ti succede”, “scegli di essere felice” e altri frasi motivazionali.

Vorrei però riuscire a porre l’attenzione sul fatto che un lutto non deve essere necessariamente un’esperienza completamente negativa, accantonata in un angolo, sepolta sotto centimetri di orgoglio, paura e vergogna nell’esprimere una debolezza.

Come?

Il primo passo è di certo non nascondere quello che senti, condividere con chi ti sta intorno di più caro le emozioni che provi, anche se sono passate settimane o mesi dal momento in cui chi amavi ti ha lasciato.

Accettare che non ci sia nulla di sbagliato nelle emozioni che provi è già un grandissimo passo avanti. C’è chi ci mette un’infinità di tempo, chi poche settimane, qualsiasi sia il tuo caso non è di certo sbagliato.

Ho già parlato del fatto che le fasi sono del lutto non sono un percorso lineare e puoi trovarti a riviverne una anche a distanza di tempo.

L’ultimo salto però è forse il più importante ed è esattamente quello fatto da Kerr nella storia che ti ho raccontato. Steve probabilmente non sarebbe stato il giocatore che l’America ha conosciuto se non avesse subito quell’esperienza.

Non solo, Kerr non sarebbe stato quello che è stato nemmeno se avesse deciso di vivere in un altro modo il lutto che ha subito.

Vorrei che smettessimo di considerare la perdita come un tabù, cancellandola dalla nostra storia, ma la considerassimo tutti un pezzo fondamentale di un puzzle, che può, per quanto tragico, aiutarci.

Il primo passo per farlo è parlare a lungo di questi temi, per questo ho scritto “Quel che resta è l’amore”, il libro in cui ho messo la mia esperienza e i miei studi sul tema del lutto, cercando di condividere un modo per vivere questo evento nel modo più dolce possibile.

Ero molto dubbioso all’inizio, ma le parole di chi ha letto questo libro mi hanno spinto ad andare avanti, nonostante le difficoltà, nonostante quanto sia duro sfondare il muro di silenzio che gli anni hanno costruito intorno al lutto.

Se tu o un tuo caro state vivendo un momento buio ti consiglio di leggere qui la presentazione del libro, la trovi qui: www.restalamore.com

A presto,

Andrea

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